No alla guerra, no alla resa

di Mao Valpiana – La storia della nonviolenza moderna è una storia di movimenti di difesa. Gandhi difendeva l’indipendenza dell’India; Martin Luther King difendeva i diritti degli afroamericani; Nelson Mandela difendeva la libertà dei neri del Sudafrica. Anche oggi i movimenti nonviolenti nel mondo agiscono in difesa della vita di chi fugge dalle guerre. Il senso di un pacifismo profetico e concreto al tempo stesso non è rinuncia- re a difendersi per evitare la guerra, arrendendosi alla violenza, ma cercare il modo per difendersi e difendere la pace senza aumentare la violenza già in atto. La nonviolenza si pone infatti due imperativi: l’etica e l’efficacia. In questo senso, possiamo dire che la domanda centrale del pacifismo è: come ci si difende meglio? Con le armi o senza armi?

Non esiste (più) la guerra giusta

È il problema al quale hanno cercato risposte, in epoche e contesti diversi, personaggi come Gandhi, Capitini, Langer. Il pensiero di Gandhi era chiaro già nel 1939: «Voi volete eliminare il nazismo, ma non riuscirete mai a eliminarlo con i suoi stessi metodi»1. Per questo propose alle nazioni occupate da Hitler di liberarsi con la resistenza nonviolenta: «L’Europa eviterebbe lo spargimento di fiumi di sangue innocente e l’orgia di odio a cui oggi assistiamo»2. Aldo Capitini (1899-1968), che introdusse in Italia e sviluppò il pensiero gandhiano, dopo le bombe su Hiroshima e Nagasaki sentì l’urgenza di aprire un varco nuovo nella storia, superando l’orrore della guerra con il metodo della nonviolenza. Alex Langer (1946-1995), politico e intellettuale pacifista, si trovò ad affrontare concretamente il dilemma dell’alternativa alla guerra nel 1993, durante l’assedio di Saraje- vo: «Oggi penso che davvero occorra un uso misurato e mirato della forza internazionale, e quindi nel quadro dell’ONU. Per fare cosa? Non certo per appoggiare alcuni dei contendenti contro altri, ma per fermare alcune azioni particolarmente intollerabili e far capire che c’è un limite, che la logica della guerra non paga»3.

La consapevolezza che oggi non esiste più la guerra giusta – se mai è esistita in passato – è diventata definitiva con la comparsa della minaccia nucleare. La potenza di distruzione è tale che diventa evidente che non può essere contrastata da una minaccia analoga. Per Gandhi questo fu subito chiaro, ben prima dell’avvento dell’era atomica e dell’equilibrio del terrore. Infatti, a meno di un anno dalle bombe di Hiroshima e Nagasaki, commentava: «La morale che possiamo legittimamente trarre dalla tragedia suprema della bomba è che essa non sarà distrutta da contro-bombe, proprio come la violenza non può essere combattuta da una contro-violenza. L’umani può uscire dalla violenza solo attraverso la nonviolenza. L’odio può essere vinto solo con l’amore»4. Anche la Chiesa matura la medesima conclusione, a cui, all’indomani della crisi di Cuba5, Giovanni XXIII dà voce nell’enciclica Pacem in terris (1963): «In un tempo come il nostro, che si gloria della potenza atomica, è alieno da ogni ragione considerare ancora la guerra uno strumento per ripristinare diritti violati» (n. 67; nostra trad. dall’originale latino).

Con il linguaggio del nostro tempo, papa Francesco ripropone lo stesso pensiero nell’enciclica Fratelli tutti (2020): «La questione è che, a partire dallo sviluppo delle armi nucleari, chimiche e biologiche, e delle enormi e crescenti possibilità offerte dalle nuove tecnologie, si è dato alla guerra un potere distruttivo incontrollabile, che colpisce molti civili innocenti. […] Dunque non possiamo più pensare alla guerra come soluzione, dato che i rischi probabilmente saranno sempre superiori all’ipotetica utilità che le si attribuisce. Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”. Mai più la guerra!» (n. 258).

La nonviolenza attiva

L’alternativa alla guerra non è la resa, ma la nonviolenza: essa «è talvolta intesa nel senso di resa, disimpegno e passività, ma in realtà non è così»6. La nonviolenza non va confusa con l’irenismo che sogna un mondo senza conflitti e che assai spesso alla protesta e all’indignazione per lo scoppio delle guerre non unisce l’impegno continuativo per la costruzione di alternative credibili e praticabili. La nonviolenza, invece, parte dall’assunzione dell’esistenza dei conflitti, che sono ineliminabili e spesso persino auspicabili, ma sceglie di affrontarli con la ricerca e la costruzione di alternative che escludano il ricorso alla violenza, attraverso la prevenzione, la mediazione, la riconciliazione. Per questo la nonviolenza si impegna in un lavoro di ricerca sulle radici dei conflitti e di decostruzione delle dinamiche della violenza a tutti i livelli, operando tutti i giorni per il disarmo e per la costruzione di forme civili, non armate e nonviolente di difesa e di intervento. È questa la proposta rivoluzionaria della nonviolenza attiva, che non accetta di subire, ma punta a cambiare la realtà.

In questa linea, chi propone la nonviolenza insiste sul tema della costruzione di un sistema di difesa e sicurezza non offensivo. A riguardo, la campagna “Un’altra difesa è possibile”, <www.difesacivilenonviolenta.org>, promossa da sei reti nazionali (CNESC – Coordinamento nazionale enti per il servizio civile, Forum nazionale servizio civile, Rete italiana pace e disarmo, Sbilanciamoci!, Interventi civili di pace) ha raccolto decine di migliaia di firme a sostegno di una proposta di legge di iniziativa popolare denominata Istituzione e modalità di finanziamento del Dipartimento della Difesa civile non armata e nonviolenta, presentata alla Camera dei deputati il 22 maggio 2015 (A.C. 3142). L’art. 1 ne chiarisce il senso e gli obiettivi: «In ottemperanza al principio costituzionale del ripudio della guerra, di cui all’art. 11 della Costituzione della Repub- blica Italiana, e al fine di favorire l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, di cui all’art. 2 della Costituzione, e l’adempimento del dovere di difesa della Patria di cui all’art. 52 della Costituzione, viene riconosciuta a livello istituzionale una forma di difesa alternativa a quella militare denominata “Difesa civile, non armata e nonviolenta”, quale strumento di difesa che non comporti l’uso delle armi e alternativo a quello militare». La proposta prevede l’istituzione di un apposito Dipartimento presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, da cui dipenderebbero tra l’altro i Corpi civili di pace, cioè «un contingente da impegnare in azioni di pace non governative nelle aree di conflitto o a rischio di conflitto o nelle aree di emergenza ambientale», la cui sperimentazione era stata inserita nella Legge di stabilità 2014 (Legge 27 dicembre 2013, n. 147, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato). Il 21 luglio 2020 abbiamo chiesto alla Camera di riprendere i lavori sul tema.

Non si tratta di utopie, ma di un orizzonte che richiede la revisione radicale dell’industria europea di difesa, che oggi non risponde più a esigenze reali dei singoli Paesi, ma è concentrata sulla competitività sui mercati esteri. Oltre il 60% della produzione europea di armi e forniture militari è destinata al mercato del Mediterraneo allargato (Africa settentrionale, Paesi arabi, Medio Oriente, ecc.), contribuendo all’aumento dei conflitti e della tensione nel mondo, cioè alla nostra insicurezza globale anziché alla nostra sicurezza. Quando proponiamo la revisione del modello di difesa, basato su criteri di sostenibilità, razionalizzazione, riconversione, e chiediamo una politica estera alternativa al modello imposto dalla NATO, stiamo facendo azione nonviolenta di prevenzione dei conflitti di oggi e del futuro.

E l’Ucraina?

Non è follia parlarne proprio adesso. Ciò che sta accadendo in Ucraina, comunque vadano a finire le cose, sarà uno spartiacque e il mondo non sarà più come prima, l’Europa dovrà ridisegnarsi e gli equilibri internazionali cambieranno completamente. Ma spesso è nei momenti più bui che può avvenire il cambiamento che nessuno si aspetta. Negli anni ’80, in una fase di corsa agli armamenti, il leader sovietico Michail Gorbaciov fece un primo passo di disarmo, ritirando alcuni missili nucleari SS20 e provocando una analoga reazione occidentale, con il ritiro dei Pershing e Cruise. Fu così che nel 1987 si giunse alla firma del Trattato Intermediate Range Nuclear Forces e al successivo smantellamento di quasi 2.700 testate nucleari (850 statunitensi e 1.850 sovietiche). Il salto di qualità della lotta nonviolenta è accettare di fare per primi il primo passo.

Alla guerra di invasione russa, si poteva rispondere in modo diverso, senza intraprendere una guerra di difesa ucraina? Nella prospettiva della nonviolenza è que- sto il punto decisivo della discussione. Proviamo a raccogliere alcuni elementi.

Il Governo ucraino chiede più armi per difendersi, presentandosi come baluardo dell’Europa contro le minacce espansionistiche russe. All’Europa non par vero di garantire profitti alle industrie belliche nazionali e far combattere una guerra per procura all’Ucraina. Ma in Ucraina non c’è una sola voce. Il Governo chiede “armi, armi, armi”; invece altre voci, come la Croce Rossa ucraina, chiedono “cibo, cibo, cibo”, e altre ancora, come i pacifisti di Kiev, chiedono “verità, verità, verità”. Dunque le richieste sono molte e non è vero che c’è identità totale tra il popolo ucraino e le sue forze armate, così come non c’è solo una resistenza armata, ma anche una resistenza civile che non vuole partecipare alla guerra, ma vuole difendersi ugualmente. È possibile e realistica una scelta simile?

La volontà comune ucraina di non cedere, di non farsi sottomettere, di resistere, di rifiutare l’invasione, ha colpito il mondo intero. Se questa forza morale fosse stata usata al posto delle armi, che cosa sarebbe accaduto? Se all’entrata dei primi carri armati russi in Ucraina, il Governo, con i sindacati, avesse dichiarato lo sciopero generale, se tutta la popolazione ucraina fosse stata invitata a scendere nelle strade e nelle piazze, con la volontà di bloccare quei carri armati, senza collaborare in alcun modo con le truppe di invasione, chiudendo tutti i servizi pubblici, fermando tutti i mezzi di trasporto, bloccando per uno, due, tre giorni, o mesi, tutto il Paese, sollecitando la solidarietà internazionale, dichiarandosi indisponibili a fare la guerra, ma determinati fino alla fine a resistere e non riconoscere in alcun modo l’occupazione, come avrebbero reagito i russi? Che cosa avrebbe fatto l’esercito invasore? Fino a dove sarebbe riuscito ad avanzare?

Un popolo pronto a non collaborare in alcun modo con l’invasore è invincibile. Nessun tiranno riesce a governare un popolo che rifiuta la servitù volontaria, con la resistenza passiva, la disobbedienza civile, la non collaborazione, il boicottaggio e il sabotaggio continuo. Forse proprio in Ucraina c’erano le condizioni storiche, sociali e politiche migliori per attuare questa forma di resistenza nonviolenta. Non è utopia, nella storia è già avvenuto. «Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l’occupazione, contro la guerra, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine», sono le parole del partigiano Sandro Pertini diffuse il 25 aprile 1945 dai microfoni di Radio Milano Liberata. Quello stesso Pertini che nel 1979, da Presidente della Repubblica, affermò: «Si vuotino gli arsenali, sorgente di morte, si colmino i granai, sorgente di vita».

Se anziché dal nazionalista in tuta mimetica Zelensky, il popolo ucraino fosse guidato da un nazionalista spirituale come Gandhi, nonviolento ma altrettanto determinato a salvare il suo popolo, a che punto saremmo oggi? In Ucraina c’è chi ha proposto e tentato questa strada, ci sono obiettori di coscienza che resistono senza prendere le armi, ma sono un’infi- ma minoranza, inascoltata, censurata, nascosta. Il Governo ucraino ha considerato solo la risposta militare, bellica, di scontro sul campo. Le armi della NATO aumenteranno la potenza di fuoco, a cui la Russia risponderà con nuove stragi e nuovi orrori.

Accettare di scendere sul terreno dello scontro armato, della guerra, comporta questi rischi, e alla fine si fa la conta dei morti. Resistere civilmente, con la nonviolenza attiva, è ugualmente rischioso, ma alla fine si fa la conta dei salvati.

 

note

1 Gandhi M.K., «To every Briton», in Harijan, 6 luglio 1940; tr. it. in Id., Teoria e pratica della nonviolenza, a cura di Giuliano Pontara, Einaudi, Torino 1973, 248-251.
2 Ivi.
3 Langer A., È giusto intervenire militarmente?, 1° aprile 1993, <www.alexanderlanger.org/ it/34/446>.
4 Gandhi M.K., «Atom Bomb and Ahimsa», in Harijan, 7 luglio 1946, in The collected works of Mahatma Gandhi, vol. 91, 221, in <www.gandhiashramsevagram.org/gandhi-literature/ collected-works-of-mahatma-gandhi-volume-1-to-98.php>.
5 Sulla crisi di Cuba e il ruolo di Giovanni XXIII, cfr Douglass J.W., «Kennedy, Krusciov e Giovanni XXIII: storia di una pace inaspettata», in Aggiornamenti Sociali, 3 (2014) 239-246 [N.d.R.].
6 Papa Francesco, La nonviolenza: stile di una politica per la pace, Messaggio per la celebra- zione della 50a Giornata mondiale della pace, 1° gennaio 2017.

 

Gentilmente tratto da Aggiornamenti Sociali maggio 2022

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